DI NOTTE TORTURATORI
DI GIORNO DIRIGENTI SPORTIVI
ALCUNE RIFLESSIONI IN MARGINE ALLE POLEMICHE DI QUESTI ULTIMI GIORNI SULLE TORTURE ALLA SCUOLA DIAZ NEL 2001
Il 7 aprile la
corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia (ma sarebbe meglio dire:
il governo e la polizia italiani) per il reato di tortura rispetto ai fatti
avvenuti durante la tristemente nota irruzione alla scuola Diaz nei giorni del
G8 di Genova 2001. La condanna metteva anche in evidenza che l'ordinamento
giuridico italiano non prevede il reato di tortura. Il parlamento è subito
corso ai ripari, scrivendo in qualche ora una legge (il cui valore è come
minimo dubbio) che ne mostrerebbe capacità di azione e democraticità.
È tuttavia
passato poco tempo prima che iniziassero a fioccare dichiarazioni di tutti i
tipi: la difesa accanita di De Gennaro o le orride dichiarazioni di Sabella
(supervisore dei torturatori e delle torturatrici della caserma di Bolzaneto) –
purtroppo riprese anche da siti di movimento – secondo le quali dietro a Genova
ci sarebbe stata una regia politica (ma di nomi manco l'ombra, mentre Fini e
altri grandi protagonisti dell'epoca si sfilano tramite interviste ai maggiori
quotidiani) che avrebbe sì voluto il morto, ma dalla parte dei poliziotti, in
modo da criminalizzare la piazza. È più che evidente, ai nostri occhi almeno,
come simili dichiarazioni non spieghino nulla di quelle giornate, ma servano
solo a creare confusione, a rendere i morti ammazzati veri e quelli che
avrebbero dovuto essere (ma, come sempre, non sono stati) sullo stesso piano,
vittime di una regia diabolica, oscura e opaca, che rende tutti vittime e che
dunque cancella ogni responsabilità. Ci appare sin troppo evidente come un
simile modo di “ricostruire” avvenimenti storici si sposi perfettamente con la
forma “storiografica” ormai dominante, secondo la quale ogni conflitto
socio-politico appartenente al passato viene “ricostruito” attraverso categorie
morali, che permettono una generica condanna della violenza, senza distinguere
chi la esercita, per quale motivo e con quale mandato, senza alcuna volontà di
ricostruire il contesto storico in cui gli avvenimenti hanno avuto luogo.
Insomma una rimozione bella e buona che finisce sempre con il salvare
l'aggressore.
Tuttavia, la più
interessante tra le varie prese di posizione è stata, almeno per noi, quella
rilasciata via Facebook da tal Fabio Tortosa, uno degli 80 sbirri che quella
sera parteciparono al massacro della Diaz. In sostanza Tortosa rivendica quanto
accaduto quella notte e, nel farlo, ottiene una serie di elogi ed encomi sul
suo profilo. Le reazioni dell'establishment sono immediate e tiepide come ci si
poteva aspettare: condanne più o meno chiare, ma soprattutto verifiche da fare,
chiarezza da raggiungere eccetera (e ci chiediamo: che cosa ancora non è chiaro
in questa vicenda?).
Ma cerchiamo di
procedere con ordine: al di là e prima di ogni condanna di qualsivoglia corte,
tutt* noi sapevamo benissimo che a Genova (alla Diaz, a Bolzaneto, per strada)
la polizia (di ogni colore e grado, nessuno escluso) ha torturato, ha
brutalizzato e ha umiliato; così come sappiamo benissimo, prima e al di là di
ogni dichiarazione su Facebook o altrove, che gli sbirri che erano a Genova (ma
quindi tutta la polizia, come corpo compatto e solidale, omertoso e pronto a
coprire qualunque porcata venga commessa dai suoi membri) hanno voluto
picchiare, torturare e umiliare. Hanno avuto mandato politico per gestire
quelle giornate con il terrore, per stroncare con la violenza un movimento
numericamente consistente (sui suoi contenuti, le sue prospettive e i suoi
limiti, bisognerebbe discutere altrove), hanno goduto di una impunità
sostanziale e di una copertura mediatica che, nell'immediato ha semplicemente
mentito fino a quando ha potuto e, in seguito, ha lavorato scientemente per
rovesciare il senso e il significato di ciò che era accaduto spostando la
“colpa” di quelle drammatiche giornate sui “violenti”, il black bloc eccetera.
Tutti questi
discorsi, divenuti purtroppo senso comune, anche all'interno di ambiti di
movimento, su di noi non hanno mai avuto presa: sappiamo cosa è stato Genova
perché eravamo lì, perché alcuni di noi hanno subito le violenze e le torture,
perché non dimentichiamo la violenza cieca degli sbirri, i loro “divertimenti”
nel picchiare gente indifesa, nel costringere le “zecche” a cantare “1,2,3 viva
Pinochet, 4,5,6 a morte gli ebrei” o a sfilare tra di loro (dunque tra calci e
sputi) con il braccio destro teso eccetera. Proprio per questo motivo non ci
stupiamo, né ci indigniamo a fronte di dichiarazioni come quelle di Tortosa,
dei suoi amici e sodali che le apprezzano e approvano pubblicamente, dei
dirigenti che ci tengono a far pervenire il loro personale “mi piace” alle
esternazioni del loro fedele sottoposto. Sappiamo, per esperienza storica e
diretta, quanta vigliaccheria si nasconda dietro alle divise, quanta prepotenza
verso il debole e quanto viscido servilismo verso il potente, chiunque esso
sia. Sappiamo anche che i cani da guardia non si abbattono quando esagerano un
po', ma che anzi talvolta è salutare permettere loro di “sfogarsi”.
Se tutto questo
lo sappiamo, perché allora tornare ancora con la memoria ai fatti di Genova,
alle polemiche di questi ultimi giorni, che nulla cambieranno nella condotta
della polizia, nella loro possibilità di agire ben al di là dei limiti della
legge (ogni giorno, non solo nelle giornate campali come quelle di Genova
2001)?
Perché, da un
lato, l'idea della palestra popolare Antifa boxe nasce proprio in quell'estate
del 2001, dopo i fatti drammatici di Genova, anche come uno strumento per
reagire al terribile colpo che il movimento ha subito, al trauma che quelle
giornate hanno lasciato sulla pelle e nella mente di molte compagne e di molti
compagni, per tentare di rilanciare un discorso di partecipazione e di
socializzazione dal basso, attraverso l'autogestione della pratica sportiva,
che viene così legata ai valori che informano la nostra pratica politica:
l'antifascismo, l'antirazzismo, l'antisessismo. Ma anche perché, leggendo i
quotidiani, veniamo a sapere che Fabio Tortosa, oltre che torturatore in
divisa, è anche dirigente sindacale del Consap,
dirigente della federazione italiana di football americano e vicepresidente
della squadra di football americano Lazio Marines. Insomma un membro più che
rispettabile della comunità, che assomma cariche di vario tipo (e stipendi di
varie entità...) e che svolge anche ruoli istituzionali nell'ambito sportivo.
Non ci stupisce vedere come gente di questo tipo sguazzi tra sindacati neri e
ambienti sportivi istituzionali, nei quali, purtroppo, ideologie fascistoidi e
machiste, trovano abbondante spazio. Ci chiediamo però allora quale tipo di
messaggio soggetti come Tortosa possano trasmettere attraverso la pratica
sportiva. Leggiamo sulla sua pagina Facebook che, dal suo punto di vista (che
si baserebbe su una verità nascosta, alla quale fa riferimento, che
conoscerebbero lui e i suoi “fratelli”, ma che nessuno sa in che cosa consista
veramente) l'irruzione alla Diaz, che rifarebbe 1000 volte, non fu che il tentativo
e la volontà di “contrapporci con forza, con
giovane vigoria, con entusiasmo cameratesco a chi aveva, impunemente,
dichiarato guerra all'Italia”. Ora, al di là della forma e della logica
rozzamente fasciste che trasudano da queste affermazioni, ciò su cui ci preme
soffermarci è il fatto che in questo modo viene descritto un assalto contro
individui (giovani e anziani, donne e uomini) inermi, spesso già addormentati
nei loro sacchi a pelo e la cui unica evidente responsabilità era quella di
aver sfilato per “un altro mondo possibile”, il che, nell'ottica del servo del
potere costituito (ripetiamo: qualunque esso sia), significa dichiarare guerra
all'Italia. 80 uomini, armati, coperti politicamente, addestrati per pestare e
torturare che massacrano decine di persone inermi sono, per Tortosa, immagine
di giovane vigoria e di entusiasmo cameratesco. Non possiamo non chiederci
allora, quale tipo di messaggi e di valori sia propenso a veicolare questo
torturatore fascista negli ambiti sportivi all'interno dei quali ricopre ruoli
prestigiosi e dirigenziali. Non possiamo neppure fare a meno di chiederci,
nella Torino del 2015, capitale dello sport, quanti soggetti, come il celerino
romano, riceveranno visibilità, fondi, pubblicità, strette di mano e attestati
di stima da tutte le istituzioni coinvolte in simili kermesse (dalla regione,
al comune, all'onnipresente San Paolo). Ci chiediamo anche quale senso abbia la
retorica sullo sport come strumento educativo, di partecipazione sociale, di
condivisione quando a tirare le fila di federazioni e club sportivi troviamo
soggetti apertamente fascisti, che fanno del disprezzo dell'altro la base della
propria pratica (sportiva e lavorativa), della volontà di annientamento
(fisico, ma anche, ci si passi il termine, morale) del proprio avversario il
valore attorno al quale costruire la pratica sportiva e l'intera esistenza.
Ci chiediamo tutto ciò retoricamente: le risposte le
conosciamo bene, perché tutti i giorni, sotto i nostri occhi, vediamo gli
effetti della diffusione di una simile cultura che, dall'ultimo sbirro,
passando per scribacchini e “grandi firme” dei maggiori quotidiani, attraverso
giudici e magistrati, fino ai più alti vertici politici, cancella e distorce la
memoria, punisce duramente chi dissente, copre e premia aguzzini e
assassini, facendosi scudo di una
concetto di democrazia che, nella forma, assomiglia sempre di più ad un governo
iper autoritario, in cui ai diktat economico-sociali si accompagnano i
manganelli e le torture come unica forma di “mediazione” tra le parti sociali.
Come palestra popolare autogestita non abbiamo mai ambito
a modificare questo stato di cose, né pensiamo che i rapporti di forza si
modifichino con i semplici ideali o con le condotte esemplari, abbiamo però
sempre tenuto ben fermo il concetto secondo il quale anche nel modo in cui si
fa sport c'è un valore politico. Continuiamo a crederlo oggi ancora di più,
certi e sicuri che la stessa cosa la credano i Tortosa e le centinaia che come
lui si aggirano e prosperano negli ambienti sportivi “ufficiali”. Continuiamo
dunque a credere che il primo risultato che, attraverso la palestra possiamo e
vogliamo ottenere, non sia quello legato alla “carriera” sportiva di questo o
quell'atleta, ma la diffusione di un modo di agire e di pensare che fa
dell'orizzontalità, della condivisione, del rispetto reciproco, della ricerca
ostinata del rovesciamento di tutti i valori del capitalismo e del suo cane da
guardia rabbioso che è stato ed è il fascismo, l'orizzonte all'interno del
quale muoverci e pensarci.
Solidarietà ai picchiati e torturati di Genova
con la
memoria di Carlo negli occhi e nel cuore
Sempre su lo sguardo
Palestra popolare autogestita
Antifa Boxe Torino